BLACK STALLION
14.5.2009

E’ ancora lì, nel mio garage.. coperta da un plaid di pile vecchissimo, sempre bellissima, nera, lucida e solida: la mia Umberto Dei da uomo, regalo dei miei 14 anni. La uso ancora quando il tempo lo permette, e mi spiace ma fa sempre la sua porca figura, in mezzo allo stuolo di City Bike comprate in offerta alla Coop coi telai di stagnola che alla prima buca si aprono in due.
Le ammaccature ci sono tutte, ognuna con le sua storia mitica (come quella volta che, caricando sulla canna la mia amica, abbiamo perso l’equilibrio e ci siamo letteralmente accasciate per terra restando bloccate per 10 lunghissimi minuti davanti alla Catena), anche un po’ di ruggine perché comunque la usavo SEMPRE, pioggia, neve o vento che fosse.
Non è sempre stato così, però: alle elementari e alle medie, vivendo in pieno centro, andavo tranquillamente a scuola a piedi, fiera della mia pedestre indipendenza prima con la cartella di Barbie sulle spalle, poi con le Superga salmone, i jeans coi risvolti della Naj Oleari e la cartella di Galliani piena di libri, responsabile principale dell’impennata di casi di scoliosi dal 1984 in poi. (Allora, il concetto di ERGONOMICO era molto nebuloso: pochi illuminati pensavano a qualcosa che avesse a che fare con Cartesio, altri con qualche canzone di Battiato). Il tragitto in bici era più che altro appannaggio degli “altri” che venivano non proprio da zone limitrofe, dalla quali (orrore) si arrivava a Carpi in corriera, ma ad esempio da zone semicentrali non proprio a portata di camminata, come ad esempio la Remesina (allora nota come “il Bronx”) o la zona Due Ponti (“il Ghetto”).
Al Liceo ho capito subito dai primi giorni che la solfa cambiava di brutto: se volevo avere qualche speranza di venire accettata dalla ristrettissima cerchia cui (ma và!) ambivo, dovevo buttare via la mia storica Graziella blu argentata con le ruote medie (che tralaltro mi aveva abbandonato in occasione della prima uscita scout a Panzano e avevo dovuto ripiegare su quella beige di mia nonna) e avere una bici degna di quel nome, che potesse almeno farmi uscire indenne dal confronto con le Robert bianche o rosa talvolta col cestino in tinta, o dalle olandesi austere e scomodissime. Last but not least, tutti i bei ragazzi al Liceo avevano almeno un Ciao, un Motron modificato col manubrio stretto, vespini 50 truccati o addirittura qualche Aletta oro o Tenerè giallo Blu (in onore della storica Panini di allora), e per noi ragazze, aggrapparci con ardore al braccio muscoloso e vigoroso del nostro adorato, tenere i piedi sui pedali della bici e farci tirare da lui fino a casa aveva un che di ormonale e di resa predestinata che avremmo capito solo anni dopo. In quel momento ci piaceva e basta, e non ci chiedevamo perché.
La mia Umberto Dei era (ed è) la Rolls Royce delle bici: la volevo con la canna perché avevo “il garrese” alto e su quelle da donna mi sentivo sul bidet. Inoltre, con la canna potevo riuscire a caricare le amiche con la speranza di non cadere dopo 5 metri o comunque di non venire fermata da: 1) i vigili che ci davano la multa, 2) mia madre furibonda “perché vi fate del male” (e non so quale delle due possibilità mi incutesse più terrore). Preferivo essere io quella caricata sul manubrio altrui, anche perché facevo in modo che a caricarmi fosse il ragazzo che puntavo, e con la scusa di abbassarmi per non ostruirgli la visuale, potevo abbracciarlo e appoggiarmi nell’incavo del suo collo per poi annusarlo (non schifatevi.. a 15 anni gli ormoni minimizzano la sacra percezione delle puzze altrui!). Mentre i voltagabbana delle mode optavano per le mountain bike (ma DAVVERO avete capito come ottimizzare i rapporti dei cambi?) o le bici da corsa (ma DAVVERO siete contenti di stare gobbi e chini su quel manubrio osceno?) io andavo dove volevo con la mia bici, schiena dritta, manubrio ampio e pedalata lunga, di quelle che con un giro fai 20 km.
Quella bici “da grande” è stata il mio mezzo di trasporto per tanti anni a venire, in bici andavamo a dormire dall’amica che aveva la casa libera (ma i nonni o gli zii strategicamente al piano di sopra per rassicurare i genitori) e sempre con la bici, con nonni e zii addormentati, facevamo le fughe notturne al Fantasia, e non eravamo le uniche colonne di ragazze starnazzanti in bici che attraversavano la Piazza alle 2 di notte cantando a squarciagola. Con la bici si andava a scuola tute le mattine, piovesse o ci fosse il sole, con 30 gradi come con -5.
Era un passo in più verso l’indipendenza e quanto mi gustavo quel senso di libertà che oggi non credo si provi più, perché i ragazzi già a 14 anni hanno degli scooter scoreggianti o appena il sole si nasconde dietro a una nuvola videochiamano i genitori per farsi venire a prendere a 500 metri da casa.
E si fa sempre più forte la nostalgia per il mio beato mondo ingenuo e credulone dove parole come “canna” e “pompa” non ti fanno beccare una denuncia per atti osceni in luogo pubblico.

 

 
 
 
 
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