DOWNTOWN TRAIN
27.11.2008

Compagni di scuola di paesini limitrofi. Li vedevo scendere al mattino prestissimo oppure li trovavo già davanti alla scuola quando riuscivo ad essere puntuale, io svegliata 10 minuti prima della campanella, e il fatto che la loro giornata fosse iniziata quando io ero ancora abbondantemente nel mondo dei sogni, in qualche modo mi metteva a disagio. Al termine delle lezioni, ci mettevo circa 6 minuti ad arrivare a casa, loro invece prima della due non erano a tavola. Nella mia testa li vedevo arrivare a casa, trovare la tavola semi sparecchiata, il piatto di minestra coperto da un altro piatto un po’ sbeccato, e la cosa mi intristiva.
Ho fatto le superiori a Carpi, forse proprio per questo mio rifiuto atavico verso ogni sorta di pendolarismo precoce (o anche dal fatto che il mio amorazzo delle medie avesse scelto proprio quella scuola lì, che volete, a 13 anni queste sono le cose che contano!)..
Il primo giorno delle lezioni all’università è stato quindi per me una vera e propria iniziazione: avevo scelto l’ateneo di Modena perché restia a separarmi dalla famiglia e dalle radici carpigiane, nonostante gli amici che già vivevano e studiavano a Bologna, Parma, Milano o addirittura all’estero ne parlassero entusiasti. Modena sembrava il giusto compromesso per me, che ero desiderosa e timorosa al tempo stesso di spiccare il volo.
Ricordo che si era scelto il treno perché non tutti avevamo la patente, era decisamente più economico della macchina, e sinceramente andare in treno era un modo ancora molto affascinante di spostarsi per ragioni di studio o di lavoro: la tratta Carpi Modena durava 15 minuti scarsi, ma nelle mie fantasie di eterna bambina cresciuta nella bambagia erano sufficienti per passarsi gli appunti con altri ragazzi e ragazze, conversare sui massimi sistemi della giurisprudenza, ascoltare musica d’avanguardia (allora erano i Cure, i Talking Heads, I redivivi Doors..) e organizzare collettivi di non so cosa, ma la frase, pescata nei racconti di Tondelli, mi piaceva molto e sognavo di farla mia quanto prima.
Viaggiare in treno mi evocava “Assassinio sull’Orient Express” (no, nessuna pugnalata!): immaginavo arredi classici e curati, stoffe di buon taglio, il controllore che si annunciava discretamente con un tocco sulla spalla. Sì, ero decisamente fuori dal mondo, e l’ho capito il mio primo giorno da matricola.
Al di là delle levatacce epocali (dopo 15 anni di risvegli all’ultimo minuto utile), del giornalaio piacione e del bigliettaio lontano parente di Caronte, entrare nel trenino Carpi Modena (graziosamente simile al LIMA di mio zio solo più sbiadito), è stato un trauma organolettico: il colore dominante era quel “grigio-giallino-marroncino” prodotto dalla anni di ditate unte, sigarette di pessima qualità, respiri da presepe e scorie umane, senza contare che i finestrini erano talmente appannati da rendere impossibile anche solo intravedere uno scorcio di campagna padana avvolta nella bruma; la similpelle ammuffita del bracciolo lasciava una patina d’unto, ed era spesso vergata da qualche mano particolarmente ispirata che vagheggiava le gioie dell’autoerotismo; l’aria sapeva di umido, di gente semiaddormentata, aveva insomma quel sentore universalmente noto come “cagnuzzo”. Il controllore era vestito di grigio piombo, aveva modi spicci e stanchi e lo stesso sguardo sveglio di D3-B9; non mi sarei stupita se improvvisamente avesse conclamato che “ne aveva viste lui di cose che noi umani non avremmo potuto immaginare…”
La fauna della stazione di Modena (per Carpi Suzzara Mantova si cambia), poi, mi ha dato il colpo di grazia: sbandati, tossici sdentati e scartazzati che ti chiedevano con insistenza 500 lire.
Si, l’impatto è stato subito deludente, ma ero libera. Nessuno mi conosceva, nessuno poteva andare da mio padre e dirgli di avermi visto fumare una sigaretta, o di aver ordinato un caffè nero invece del cappuccino. Potevo baciarmi col filarino del momento e decidere di farmi un giro per la Via Emilia senza incontrare nessuna conoscenza pericolosa. Il treno mi portava verso la libertà che vigliaccamente avevo sempre procrastinato. Quel senso di libertà non l’ho mai più provato neanche quando, dopo qualche esame andato benino, ho ricevuto in regalo una macchina tutta mia (di quarta mano). Me ne sono ricordata soltanto ieri, quando per un caso fortuito, sono tornata nella stazioncina di Carpi: era più luminosa, più ampia e un po’ più pulita; la biglietteria non era in un gabbiotto malsano e il bigliettaio è stato anche gentile nel darmi le informazioni richieste. Il trenino era sempre lo stesso, ma era cambiato qualcosa nei ragazzi che vi stavano salendo: mancava l’aria entusiasta e spavalda, il senso della fuga e dell’attesa che avevamo noi: probabilmente tutti si trovavano lì perché avevano la macchina dal meccanico e non avevano alternative, e potrei scommettere che oggi John Cage verrebbe gentilmente invitato a scendere per disturbo alla pubblica inedia.

 
 
 
 
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