TOY STORY
9.10.2008

La mia preoccupante sindrome da shopping compulsivo ha radici molto profonde. E’ doveroso premettere che c’è un momento, nelle nostre vite, in cui riceviamo l’Illuminazione: sono vivo, esisto, penso, e dal quel momento in poi il nostro cervello non tace più.
Fino a qualche giorno fa non ricordavo più qual era stato il mio; fatto sta che, in occasione dell’ennesimo compleanno dell’ennesimo figlio dell’ennesima amica sistemata, mentre mi trovavo preda dell’infausta scelta tra l’Arena dei Gormiti e la Fabbrica dei Mostri (Se Amleto avesse dovuto scegliere cosa regalare al fratellino di Ofelia sarebbe impazzito senza bisogno di odi edipici tra familiari), ho girato l’angolo, ho visto un’intera vetrinetta di Barbie e ho ricordato.
Così come Proust e la sua madeleine, mi sono rivista bambina, con le mani appiccicose di Ovomaltina protese verso la Barbie Superstar, fulgida nel suo boa fucsia e gli orecchini di brillanti.
Medoro era il Mr Magorium di Corso Cabassi, il Fao Schwarz della Pianura Padana, il Willie Wonka del Ducato dei Pio. Il suo negozio era strategicamente situato a pochi passi dalle scuole elementari, proprio di fianco al Forno De Caroli, Sodoma e Gomorra per noi bambini degli anni 70: l’uno era letale per le nostre digestioni, l’altro per le tasche dei genitori. D’inverno, tornando da scuola, ci compravamo due etti di stria bollente e bisunta e lo divoravamo davanti alla vetrina, tanto per sognare e stilare la nostra wish list di Natale, Santa Lucia e compleanno. Audrey Hepburn faceva “Colazione da Tiffany” in un tubino di Givenchy, io facevo “Merenda da Medoro” con le scarpe di vernice rossa comprate da “Stil baby”.
Io snobbavo i peluches, schifavo i vari Cicciobello che gnolavano e sbrodolavano (i tempi di quelli che sporcano il pannolino per fortuna dovevano ancora venire, e non escludo che Medoro abbia chiuso proprio a causa loro…).. e faticavo a identificarmi nei vari giochi che il mercato proponeva (a parte un Dolce Forno Harbert con cui facevo dolcetti orribili, presto dismesso quando ho realizzato che per non farmi venire il mal di pancia, mia madre me le cuoceva di nascosto col forno normale), finchè, come San Paolo sulla Via di Damasco, ho avuto l’incontro della mia vita: la sopra citata “Barbie Superstar”: cosa aveva di diverso dalle sue omonime che l’avevano preceduta? Semplice: aveva le braccia piegate nel gesto di ravvivarsi la pettinatura a onde fluenti, la bocca aperta in un sorriso a 50 denti, il colorito abbronzato, un vestito da gran sera scollacciatissimo, le scarpine col tacco. In due parole, era glamour allo stato puro. Basta con il colorito emaciato, i pomellini, la boccuccia rossa a cuore, l’eye liner sullo sguardo serio e corrucciato: con la Superstar si andava ai party, in crociera, a una premiazione, mentre con le Barbie vecchie si poteva al massimo ambire a una gara di cucina assieme alle altre Barbie “casalinghe disperate”. Lei aveva la Corvette rosa, l’aereo personale, il cavallo, la villa, un fidanzato!! Noi più fortunate avevamo infatti anche Ken, il suo eterno chaperon, e morbosamente spiavamo dentro ai suoi pantaloni alla ricerca di “quello”, che poi si rivelava sempre di una certa inconsistenza (probabilmente per evitare la censura del MOIGE). Dopo averli esaminati attentamente da tutte le angolazioni, avevamo addirittura decretato che Big Jim era molto più dotato, ma non poteva assolutamente fare il marito di Barbie perché era più basso di lei (Sarkozy e Berlusconi erano ancora “nei pensieri”..)..
Medoro (ma era poi il suo nome? Non voglio saperlo!) era un signore con la faccia simpatica, il pullover a V bordeaux con la cravatta sotto, un sorriso accattivante, la vetrina sempre in costante aggiornamento che si sviluppava in verticale: per non rubare posto allo spazio interno, la scaffalatura della vetrina arrivava fino al soffitto, così che sembrasse di essere travolti da una fiumana di giochi. Aveva due porte d’ingresso, a vetri: da fuori si vedeva perfettamente tutto quello che c’era in negozio, anche quando era chiuso. Dentro, il bancone era a “U”, così che per 270 gradi Medoro poteva servire i suoi clienti, piccoli e grandi. Procedendo verso l’interno, si schiudeva un mondo magico, fatto di Lego, costruzioni, bambole, giochi di società, amenicoli vari, tutti in un simpatico disordine dove Medoro trovava sempre quello che volevi. Passava ore con ciascun cliente, servendoli tutti contemporaneamente senza far aspettare nessuno, anche perché aspettare lì dentro era una vera goduria: tutto era accogliente, rassicurante e opulento. Era tutto più lento, ma più assaporato.
Lo so che sono una vecchia brontolona, che vivo nel passato, e forse tra qualche anno mi vedrete parlare da sola mentre trascino il trolley della spesa pieno di cibo per gatti, però trovo che non ci sia confronto con gli stessi giochi comprati al bancone della Coop e passati freddamente al lettore ottico del Salvatempo. Neanche se usufruite dello sconto 15 e del ristorno.

 
 
 
 
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